Berlino, Staatsoper im Schiller Theater, “La sposa dello Zar” di Rimsky Korsakov
UNA SPOSA VERA PER UNO ZAR VIRTUALE
A Berlino è in scena “La Sposa dello Zar”, delle opere di Rimsky Korsakov la più apprezzata in Russia ma pressoché sconosciuta e raramente rappresentata in Occidente.
Diversamente dalle composizioni precedenti, non è basata su materiali fantastici attinti dalla tradizione folclorica e popolare russa, ma è un melodramma romantico “pseudostorico” che ricerca maggiore drammaticità al limite di un verismo a tinte forti. E’ un’opera eterogenea che affascina per la varietà di linguaggi musicali dove melodia e lirismo s’intrecciano a temi solenni e tinte appassionate.
Nella vicenda, che ruota intorno a passioni devastanti, filtri d’amore, rivalità e intrighi, si contrappongono Marfa e Lykow, giovani e puri innamorati, alla coppia “infernale“ formata dall’anziano sgherro Grjasnoj, che perdutamente invaghito di Marfa ricorre alla magia per averla, e della sua amante Ljubascha, che vedendosi abbandonata vende il proprio corpo in cambio di una pozione che annienti la rivale. Fanno da sfondo la Russia del 1500, la polizia segreta degli Oprinichi e Ivan il Terribile, presenza muta, ma significativa, in quanto sceglierà proprio Marfa come sposa fra duemila ragazze russe.
Come si addice a un fosco dramma romantico, muoiono tutti e quattro i protagonisti e l’opera ha il suo apice drammatico e musicale nella scena della follia di Marfa.
Leggendo la trama si teme che in sede di rappresentazione si possa scivolare nell’effettaccio o nel ridicolo, rischio che Dimitri Tcherniakov, il talentuoso regista russo ideatore della una nuova coproduzione con la Scala che sarà a MIlano in primavera, ha evitato con una regia avvincente che tiene col fiato sospeso: il fosco melodramma diventa una moderna riflessione sul potere e sui rischi della comunicazione mediatica.
Durante il preludio la scena è divisa in due: da un lato la stanza dei bottoni tutta schermi e computer dove tecnici in abito grigio eseguono manipolazioni digitali su di una figura maschile, dall’altro uno studio televisivo dove vengono riprese delle comparse vestite in folcloristici abiti d’epoca. Le mail ironiche che si scambiano gli Oprinichi proiettate sulla scena chiarisce la situazione: per dominare le masse con un potere mediatico forte serve uno Zar virtuale che assommi in sé stesso i grandi leader russi del passato (Trotsky, Stalin, Ivan il Terribile fra gli altri), ma per risultare più credibile dovrà avere una moglie in carne e ossa da scegliersi negli archivi di casting televisivi. La figura dello Zar, marginale nell’opera nonostante il titolo, diviene qui il motore dell’azione e, anche se si tratta di una figura virtuale, diventa sempre più invasiva e sulla scena che ruota s’intrecciano i due diversi piani narrativi, quello della manipolazione e quello della storia. Dov’è la realtà?
Nel secondo atto, dedicato in buona parte all’effusione melodica e amorosa, l’interno della camera da letto di Marfa, con la tappezzeria fiorata e proiezioni di alberi frondosi, incornicia le confidenze amorose di due incantevoli collegiali, Marfa e l’amica Dunjasha. L’immagine idilliaca viene però incrinata dalla presenza di un televisore che diffonde reportage celebrativi del nuovo enigmatico Zar e soprattutto di Ljubascha che, come noi, guarda dall’esterno dentro la stanza e, colpita dalla bellezza della fanciulla, decide di eliminarla.
Ambientazione analoga per il terzo atto, un claustrofobico salotto piccolo borghese dove il padre di Marfa, Lykow e Griasnoj sono visti di spalle mentre guardano la TV in attesa della festa di fidanzamento dei due innamorati. Nonostante l’atmosfera leziosa, palloncini colorati e toni pastello si avverte una tensione sul punto di esplodere.
Nel quarto atto Marfa, divenuta una zarina impeccabile ed elegante si lascia passivamente truccare davanti alle telecamere in studio. I primissimi piani del volto mostrano sul maxischermo della camera di regia il progredire della follia, presto cancellata e sostituita da fotogrammi di propaganda con una Marfa raggiante. La zarina virtuale continua a vivere per i media, mentre la vera si spegne nel delirio.
Per i lineamenti delicati e perfettamente disegnati Olga Peretyatko è una Marfa straordinariamente fotogenica e conforme ai canoni televisivi, requisito importante per la riuscita della produzione; inoltre è talmente incantevole anche vestita da collegiale in ballerine e calzini da giustificare rovinosi desideri maschili. La voce lirica si addice alla freschezza del personaggio e si apprezza la purezza della linea di canto. Se nell’aria del secondo atto è forse troppo naïve, trionfa nella scena della pazzia dove il canto rarefatto di levigata perfezione contrasta con le dolorose espressioni del viso e con il movimento inquieto delle mani.
Per carattere e varietà espressiva la vera protagonista è però Ljubasha, ruolo con cui Anita Rachvelishvili ha riportato a Berlino un importante successo personale. La cantante si è imposta fin dall’iniziale canzone popolare a cappella, una ballata straziante e malinconica cantata sottovoce e la voce si è poi espansa con forza e slancio nel corso dell’opera soggiogando l’audience con un canto sontuoso e sicuro di grande impatto emozionale.
Ci è piaciuto il Grjasnoj di Johannes Martin Kraenzle per avere ammantato il personaggio di una negatività moderna e credibile: la capacità di accento e le doti d’interprete compensano qualche stanchezza vocale. Pavel Cernoch dona giusto lirismo all’innamorato Lykow. Bene Stephan Ruegamer nel ruolo dell’alchimista Bomelius, più vittima della passione dei sensi che non una caricatura come la storia potrebbe lasciar pensare.
Da segnalare nel piccolo ruolo di Saburowa la grande Anna Tomowa Sintow, ancora capace di forte presa sul pubblico. Anatoli Kotscherga infonde alla figura del padre Sobakin gravitas dolente. Completano il cast la bella Dunjasha di Jurgita Adamonyte e Carola Hoehn nel ruolo della partecipe governante Petrowna.
Daniel Baremboin imprime un forte slancio drammatico con una direzione contrastata e rovente che contribuisce a rendere lo scorrere della vicenda avvincente e appassionante.
La direzione, sempre molto intensa nelle pagine sinfoniche a partire dallo straordinario preludio immerso in una morbida sensualità, non sempre valorizza i momenti squisitamente lirici che risultano un po’ generici e non compiutamente inseriti nel tessuto narrativo.
Straordinario successo di pubblico e critica per una produzione che a Berlino fa il tutto esaurito: ci auguriamo che anche a Milano possa ricevere analoga accoglienza.
Visto a Berlino, Staatsoper im Schiller Theater, il 19 ottobre 2013